Sala Ovale: l'importante è partecipare

1 giugno 2010

Partiamo da una constatazione, abbastanza amara per chi scrive, ma pur sempre un dato di fatto incontrovertibile che rimarrà nella storia: l’Inter ha vinto il trofeo più importante che una squadra di club possa vincere, la Champions League. L’ha fatto meritatamente, perché quando butti fuori corazzate del calibro di Chelsea e Barcellona, non c’è Santo od arbitro che tenga. E’ una questione di sportività ammettere la superiorità nerazzurra, complimentandosi con i morattiani per la loro impresa. Certo, da questo a tifare per l’Inter ce ne passa (un milanista purosangue non potrà mai applaudire Zanetti che alza la Coppa dalle grandi orecchie), ma è giusto che chi in passato ha vinto tanto tenda la mano a chi finalmente può scrollarsi di dosso la reputazione di avere nella propria bacheca solo anfore preistoriche. La sportività, si diceva. Sì, è un bel problema. In Italia, ma non solo. Un tempo, ci raccontano le cronache epicheggianti in bianco e nero, capitava sovente che gli sconfitti applaudissero i vincitori, anche se questi non si facevano troppi scrupoli ad umiliare l’avversario. E così gli stadi, pieni di passione e di bandiere, non erano divisi in blocchi e blocchetti da barriere orripilanti. Non c’erano schiere di poliziotti in assetto antisommossa pronti a bloccare quei quattro disgraziati che infestano le curve cercando ogni possibile motivo di scontro. Il calcio, ma lo sport in generale, era vissuto diversamente, con più intelligenza, con meno livore. Uno spirito che si è drammaticamente perso. Oggi conta l’annientamento della squadra avversaria, si tifa quasi più contro che a favore dei propri colori, quelli che porti nel cuore sin dall’infanzia. E’ un sintomo di malattia, grave. La polemica eccessiva, fomentata da televisioni compiacenti, non fa altro che incancrenire questo tumore, esasperando gli animi e la rabbia repressa. Far vedere duecento immagini su presunti torti alla propria squadra e altrettanti fermo-immagine su favori dati agli altri, contribuisce (e non poco) a far diventare lo sport un campo di battaglia, dove ognuno dà il peggio di sé. Ed è così che il legittimo gufaggio (fa parte dello sport) diventa odio, superando quel sottile limite che porta a vivere tutto come una guerra. Come recuperare allora quella sportività che ormai è copyright esclusivo degli sport cosiddetti di nicchia, quelli che godono della ribalta televisiva solamente ogni quattro anni in occasione delle Olimpiadi? Beh, un primo passo potrebbe essere quello di risalire all’essenza primaria del tifo, alla sua ragione: sostenere la propria squadra, i propri colori, fregandosene (se si può) degli altri. Sputare veleno sui trionfi altrui non fa altro che denotare un po’ di invidia mista a frustrazione. Fare gli snob, i superiori, magari tacendo, potrebbe essere un primo passo per riscoprire i vecchi valori insiti nello sport. Quelli che, più o meno, piacevano tanto a Monsieur de Coubertin.
Matteo Matzuzzi

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